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Moncler, Hermès, Gucci e Balenciaga. Tod’s, Bottega Veneta, LV, Chanel e Prada. Loghi, claim, nomi e immaginari che si sovrappongono e giocano per contrapposizioni e associazioni. Etro che diventa Pietro, I love Winter di Moncler che si abbrevia in Inter, Gucci Gang, le vetrine e una capsule di sneakers per Stella McCartney… Sul filo dell’ambiguità tra spontanea iniziativa e ufficialità, atti quasi vandalici – ma via photoshop, ecco Pietro Terzini, Generazione Y, l’artista che spesso passa assist e lancia idee ai brand che prende di mira – per esempio, Gucci scritto sulla vetrina di Balenciaga he did it first – e scatena interaction e condivisioni su Instagram più di vere e proprie call to action. “All’inizio avevo meno seguito, adesso quello che faccio ha risonanza e i brand lo ripostano e comunicano. Potrebbero anche mandarmi delle belle denunce per utilizzo improprio del marchio, ma se li rilanciano sui social vuol dire che sono contenti e che posso stare tranquillo, per ora!”.

Come ti vengono le idee?

In ogni cosa devi metterci un pezzettino di te, e tutti vogliono le idee come se avessi la bacchetta magica. Se mi sforzo non mi vengono, sotto pressione mi si stacca il cervello. Quelle migliori arrivano quando vado la sera a camminare con la musica o quando sono al bar con gli amici a bere un Gin Tonic. Parto sempre da una situazione di insicurezza: sono io il mio giudice, parlo con me stesso e capita che le cose che mi convincono di più sono quelle che invece vanno peggio. Per esempio, mi sembrava che l’idea di scrivere “Didn’t do it” sulla scatola rossa Nike di fianco a quella Adidas con scritto “Impossible” fosse geniale, e invece non se l’è cagata nessuno. Bisogna tenere il concetto a un livello molto basic.

Sei identificato come “l’artista delle scritte”. O come ti piacerebbe essere riconosciuto?

Pietro, quello che fa quelle cose… Ho tre filoni: il tema del tempo con gli orologi, il tema dell’amore con i DM, Direct Messages, quello del consumismo e della moda con i sacchetti.

Le scritte rappresentano il comune denominatore del mio lavoro e determinano i contrasti su un oggetto. È una roba vecchia che avevo studiato al Poli (Politecnico di Milano, ndr), l’effetto è quello di Duchamp, colui che ha cambiato le regole del gioco, ribaltando la percezione, e quindi, il significato degli oggetti comuni. Il paragone è alto ma il concetto è identico. Duchamp ha preso una latrina, trasformandola in una fontana. Alla fine è quello che faccio anch’io, a partire dai sacchetti e dalle scatole  dei brand che recupero dall’immondizia o mi danno gli amici. Stesso  discorso per i DM. Il percorso è quello: prendere una cosa che conoscono tutti e cambiarne il messaggio.

I DM.

Sono più che altro cose d’amore, riflessioni quotidiane.

Ne faccio uno al giorno. Pam, mi viene naturale scriverli, è più immediato rispetto allo sbattimento che bisogna fare per il quadro con il sacchetto. Sono frasi molto semplici, legate alla quotidianità delle persone. Tutti oggi ci mandiamo i messaggini, ci parliamo così, anche su Instagram, quindi ho detto “perfetto”, li utilizzo in chiave artistica. Hai la domanda e poi la risposta con una sensazione di stacco, un contrasto. Quella roba lì è la stessa che suscita un sacchetto con le scritte. È come la figura retorica dell’ossimoro.

L’intervista completa su Posh N.101