Jean-Luc Godard, schematizzando la suddivisione in due filoni del cinema delle origini, aveva teorizzato una linea dipendente dal cinema dei Lumière, che concepiva “lo straordinario nell’ordinario” e una derivata da Georges Méliès, che scopriva “l’ordinario nello straordinario“.
Entrambe queste direzioni poetiche si potrebbero applicare alla ricerca dell’artista Paola Pivi (Milano, 1971), una tra le più importanti artiste nel panorama contemporaneo internazionale. Nel 1999 ha vinto, insieme ad altre quattro artiste, il Leone d’Oro alla 48° Biennale di Venezia per il migliore padiglione nazionale e nel 2011 ha ottenuto la fellowship alla American Academy a Roma. Le sue opere sono presenti in prestigiose collezioni permanenti fra cui quella del Guggenheim Museum di New York, del Centre Pompidou di Parigi, della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e del Castello di Rivoli a Torino.
Nelle opere della Pivi la realtà è spesso ribaltata e sovvertita, può essere fonte di sorpresa e meraviglia oppure viene trasfigurata in una immagine fantastica e ludica. Le sue opere ritrovano lo straordinario nell’ordinario, il possibile nell’impossibile e viceversa. In entrambi i casi, lo sguardo dello spettatore si carica di meraviglia di fronte al potere della nuova immagine da lei costruita, che sovverte i confini classici tra realtà e paradosso, serio e faceto, tra spazio pubblico e intimo.
Come aveva affermato Massimiliano Gioni, Direttore artistico Fondazione Trussardi, Milano: “Le opere dell’artista nascono da imprese ciclopiche ma sono pervase da ironia e leggerezza: con mutamenti di scenario, moltiplicazioni sterminate o stravolgimenti di collocazione, il realismo magico di Paola Pivi trasforma operazioni apparentemente impossibili in gesti di una semplicità spiazzante”.
L’abbiamo intervistata a fine dicembre 2021, mentre si trovava immersa nel suo studio ad Anchorage, in Alaska.
L’iconografia dell’orso, protagonista della nostra copertina di Posh, è uno dei soggetti più ricorrenti nella tua ricerca da oltre una decina d’anni. I tuoi orsi polari, dai piumaggi accesi e psichedelici, praticano lo yoga, fanno acrobazie, si abbracciano, interagiscono l’uno con l’altro… Come mai hai scelto di rappresentare questo animale e cosa significa per te? Ci sono rimandi voluti ai temi della sostenibilità e della preservazione della specie?
Dal 2006 vivo in Alaska, sono un’ospite a casa degli orsi e sono quindi ossessionata dagli orsi. Al 2006 risale la mia prima scultura di un grande orso polare, coperto di piume gialle, che avevo esposto nella mostra collaterale alla Biennale di Venezia Hamster wheel, organizzata da Franz West. A partire da quell’opera, gli orsi sono costantemente tornati nella mia arte, sono onnipresenti.
Sento una continua richiesta di creare nuove sculture di orsi perché quando le espongo le persone provano un collegamento molto forte, sono attratte e si immedesimano con questi animali e hanno con loro una relazione molto viva e positiva.
Quando ho realizzato il primo orso nel 2006, non stavo pensando ai problemi dell’ambiente, ma lo costruii di schiuma, di piume e di plastica esattamente perché non volevo essere coinvolta nell’uccisione di orsi per le mie sculture.
Oggi è indubbio che gli orsi polari soffrano. È evidente che il pianeta stia soffrendo e che noi stiamo soffrendo con il pianeta, perché anche noi siamo un pezzo del pianeta, e quindi gli orsi sono diventati portatori di questo messaggio, anche tramite la mia arte, e richiamano il concetto di sostenibilità, pur non essendo stati appositamente creati da me con questo scopo.
Spesso le mie sculture portano una dinamica ludica, giocosa e sdrammatizzata, come nel caso di We are the baby gang, una mostra composta da 70 orsi polari bambini, coperti di piume di colori diversi, che è stata esposta nel 2019 alla galleria Perrotin di New York e che nel 2021 ho fatto fluttuare nell’Aria Hotel di Las Vegas come se fossero esplosi nell’atmosfera. Oppure nella mostra Why not? alla Galleria Massimo De Carlo di Hong Kong, sempre nel 2021, dove ho esposto per la prima volta una serie di 12 zampe di orso, Bare foot, che spuntano dal muro in posa di piede di ballerina, di 12 colorazioni di piume diverse.
Uno degli aspetti più peculiari della tua poetica è, a mio parere, questo binomio tra ordinario e straordinario, che ricorre in continuazione nel tuo lavoro e di volta in volta lo ravviva di nuove e incredibili associazioni visive e mentali…
Le sculture Lightening ball e My little ball, anch’esse esposte nella mostra Why not?, si ricollegano in modo significativo al tema dell’ordinario nello straordinario a cui accenni: sono sfere composte dall’intera collezione di sedie Vitra in miniatura che ripercorrono la storia del design internazionale e costituiscono quindi degli oggetti di straordinario valore storico, ma come sedie sono anche oggetti di uso comune; una miniatura in sé è qualcosa di quasi ordinario, ma le miniature di Vitra sono realizzate con un lusso e una raffinatezza tali da trasformarsi in qualcosa di straordinario; è ancora una volta straordinario che io abbia preso proprio l’intera collezione di sedie, per averle poi ricomposte entro una sfera con una lampadina al suo interno che diventa quindi una lampada, un oggetto di uso comune.
La mostra Why not? nasce tra il 2020 e il 2021, quando il clima era ancora molto soporifero per via della diffusione del Covid. Massimo De Carlo mi invitò a esporre ad Hong Kong e abbiamo pensato di realizzare una mostra molto fresca, giocosa, festosa, con opere piccole e divertenti.
Come hai vissuto questo periodo caratterizzato dalla pandemia dovuta al Covid-19? Ti sei in qualche modo dovuta confrontare con questa emergenza?
A febbraio del 2020, quando è arrivato il Covid, mi trovavo a Milano perché stavo lavorando ad un grande bronzo presso la Fonderia Battaglia, la fonderia artistica storica. Sono rimasta inizialmente terrorizzata dal Covid e ho vissuto questa situazione di disagio generale con una prospettiva intensa e personale. Questa circostanza mi ha portato a raccogliere in modo sempre più frequente e compulsivo meme sul tema Covid finché, nell’estate dell’anno dopo, ho realizzato la mostra intitolata 25.000 Covid Jokes (It’s not a joke) che costituisce, per me, una pietra miliare della mia carriera espositiva.
La mostra cataloga 25 mila battute di umorismo sul Covid, prelevate da tutto il mondo e da tante culture (sono rappresentati almeno 60 paesi del mondo). Si tratta di 25.000 meme, battute di spirito, barzellette, piccoli video, fumetti, disegni, caricature, comic strip che sono stati esposti al pubblico stampati su carta in una specie di labirinto presso la Chapelle du Centre de La Vieille Charité di Marsiglia. Il luogo espositivo è la cappella all’interno dello storico ospizio del quartiere Panier, usato anche come ospedale all’epoca della peste, che oggi è diventato un museo di arte.
Spesso associ o crei i tuoi soggetti mediante oggetti che prelevi dal mondo del design e del fashion system. Mi vuoi raccontare della tua ultima collaborazione con il marchio e la galleria Paradisoterreste di Bologna?
Paradisoterrestre di Bologna è un brand di Dino Gavina che, dalla fine degli anni Settanta, collabora con artisti e designer internazionali come Marcel Breuer, Man Ray, Giacomo Balla, Carlo Scarpa nella realizzazione di oggetti e mobili di design esclusivi. Oggi il marchio, ripreso da Gherardo Tonelli, ha riportato alla luce il dialogo tra arte e design.
Con Paradisoterrestre ho creato il tappeto Universe, in edizione limitata, ispirato alla mia opera di grafica Untitled (1998), derivata dall’invito stampato su carta della mia prima mostra personale presso la Galleria Massimo De Carlo a Milano, sempre del 1998, quando gli inviti erano disegnati ancora da noi artisti, che quindi, come mia prima personale, era molto importante per me.
Let’em shine art è una lampada a parete, sempre in edizione limitata, omaggio alla famosissima Garbo dell’artista giapponese Mariyo Yagi (fatti di fili bianchi pendenti) e ai Bachi da setola di Pino Pascali, che permette di creare diverse atmosfere grazie alle varie combinazioni delle tre fonti luminose.
Poi ho riempito l’ingresso di ruote che girano a parete, della serie Time Machine, realizzate a partire dal 2016, ruote di bicicletta attorno a cui ho messo delle piume, che fluttuano con movimento ipnotico. Queste opere cinetiche, che richiamano sia gli acchiappasogni degli indigeni americani sia la Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp, girano a velocità costante, spesso alterando nello spettatore la percezione dello scorrere del tempo.
Ancora una volta, mischiando i concetti di ordinario e straordinario, la mostra presso Paradisoterrestre intitolata Rock the art contiene anche opere monumentali e imponenti quali Money machine (true blue, baby I love you), Old is gold e I did t again, di stampo museale, allestite in un ambiente domestico, un appartamento del centro di Bologna, relativamente piccolo, infatti la galleria Paradisoterrestre è concepita come la casa di un collezionista ideale, con ingresso, salotto, cucina, camera da letto, bagno.
Cosa ha orientato, invece, la tua creazione per la collezione Artycapucines di Louis Vuitton ?
Capucines è una borsa storica di Louis Vuitton, che viene reinterpretata da artisti internazionali (come Vik Muniz, Zeng Fanzhi, Urs Fisher ecc…) sotto il nome di ArtyCapucines.
La mia borsa si ispira alla mia performance del 2007 realizzata presso la Kunsthalle di Basilea, One more cup of cappuccino then I go, dove avevo accostato un leopardo e 3000 tazze di cappuccino (finto, fatto di plastica).
La creazione, in edizione limitata, rappresenta un leopardo ricamato e sovrastampato per realizzare un effetto pelliccia, mentre tazze e piattini sono intarsiati a mano, con un prezioso decoro in foglia d’oro.
Durante periodo Covid è stato bellissimo lavorare con tutta la squadra di Louis Vuitton, che riusciva a portare una vitalità enorme anche nei meeting via etere
L’intervista completa su Posh N.101