“AVERE UNA VOCE È LIBERTÀ”
Occhi magnetici, voce calda e rassicurante. Nonostante il grande pubblico l’abbia conosciuta solo di recente, prima con “Fedeltà” su Netflix e poi con “Mare Fuori” su RaiPlay e Rai2, Lucrezia Guidone vanta una carriera di lunghissimo corso nel teatro e nel cinema. Pescarese di nascita e romana d’adozione, ha studiato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico e al Lee Strasberg Theatre and Film Institute di New York. Ha lavorato a teatro con Luca Ronconi, vincendo diversi riconoscimenti come il Premio Ubu, prima di farsi conoscere sul grande schermo.
“Senza paura, mi sono fatta le ossa” – dice di sé – “e tutto questo mi ha aiutata a diventare l’artista che sono oggi. Nel mio percorso, essere libera è cercare di trovare una centratura dalla quale potermi muovere senza timore, pur sapendo di andare incontro a critiche, per trovare il mio spazio creativo”.
“Mare Fuori” ti sta regalando un grandissimo successo grazie all’interpretazione di Sofia, nuova direttrice dell’IPM. Ruolo difficile dato che hai dovuto sostituire, tra le altre cose, l’amatissimo personaggio interpretato dalla collega Carolina Crescentini. Da dove sei partita per costruire Sofia? Come nasce il tuo personaggio?
Con Ivan, il regista, volevamo rispettare questo nuovo ingresso in contrapposizione all’uscita del personaggio di Paola Vinci e per questo motivo il mio personaggio aveva una durezza e una rocciosità già in fase di scrittura. Abbiamo però voluto darle allo stesso tempo dei contrasti, far capire, attraverso delle piccole sfumature dell’interpretazione, che un personaggio non è mai una sola cosa: abbiamo lavorato per dare piccoli spiragli di fragilità in modo da trasmettere il messaggio che, laddove incontriamo delle personalità dure, in realtà ci sono delle cose più fragili dentro che si nascondono.
Una sorta di corazza indossata per nascondere una profonda intima sofferenza e fragilità.
Esatto, anche se devo dire che il cinismo di Sofia a volte mi fa sorridere dal punto di vista interpretativo, mi diverte fare anche qualcosa di diverso, dare delle risposte che magari nella vita reale non darei mai.
I personaggi dunque un po’ ti condizionano, ti cambiano: non sei tu, ma c’è comunque sempre una parte di te.
È sempre un mix: si parte da noi per poi declinarsi in situazioni nelle quali probabilmente si reagirebbe in modo diverso… per esempio, io non arriverei mai a usare la violenza, non sarei in grado di aggredire fisicamente una persona, mentre Sofia lo fa. Quindi trovi dentro di te dei punti di collegamento con i personaggi che interpreti, provi a immaginare come dovresti arrivare a essere per svolgere determinate azioni ed è divertente quest’immersione all’interno di mondi diversi, perché ti arricchisce di altri punti di vista e ti fa abbracciare cose che sembrano lontane.
Cosa c’è di Sofia in Lucrezia e di Lucrezia in Sofia?
Potenzialmente tutto e niente. Ci sono dei piccoli segni di cose che magari, portate all’estremo in situazioni di sofferenza come quelle che vive il personaggio che interpreto, potrebbero arrivare ad assomigliarsi con dei miei modi, però tantissime altre rigidità che ha Sofia non mi appartengono minimamente, nonostante riesca a comprenderle. Non so dirti… perché poi non è che io sappia proprio come sono, sempre in continuo mutamento.
Sei nata a Pescara, ma subito dopo il diploma ti trasferisci a Roma per frequentare l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica – “Silvio D’Amico” e poi a New York dove hai studiato presso il “Lee Strasberg Theatre and Film Institute” e con Susan Batson la coach di Nicole Kidman e Juliette Binoche. Che percorso è stato? E in particolare cosa ti ha lasciato l’esperienza americana?
Innanzitutto la possibilità di confrontarmi con una lingua che, recitativamente parlando, non era la mia e quindi, quando parliamo di lingue diverse, tiriamo fuori anche delle personalità diverse e questo avviene ovviamente anche in scena, come con i dialetti che sono delle lingue dell’inconscio. Lingue diverse dalla tua possono portarti a delle cose assolutamente nuove, a dei lati di te che non conoscevi. È stata un’esperienza che sicuramente mi ha aperto, mi ha dato fiducia anche l’idea di vivere in un paese completamente diverso dal mio, lontanissima da casa. Non ho mai avuto quella sensazione “oddio che mi succederà”, anzi, sono sempre stata abbastanza all’av- ventura, ma mi ha dato molta fiducia vedere che poi alla fine, in qualche maniera, si riescono sempre a creare delle nuove reti. Mi ha insegnato a essere aperta alla vita. New York poi è un gran contenitore di contraddizioni estreme, è stato come sedersi in un salotto gigante e poter osservare le diversità più assurde dell’essere umano: dalla metropolitana, allo spiare dalle finestre, al sedersi nei parchi e guardare, guardare, guardare. È stata un’esperienza visiva incredibile. Poi viverci per tanto tempo è diverso che andarci in vacanza… dopo un po’ di anni cominci a vedere anche un lato un po’ più dark, che sorride di meno. Oggi come oggi, New York per me è un posto del cuore: ci torno volentieri, ho amici lì, ma non ci vivrei, mi mancherebbe rinunciare a tante cose culturali mie… anche la qualità dei rapporti che c’è qui da noi o il modo di divertirsi è totalmente diverso. La cosa che, invece, attorialmente mi è piaciuta è stato proprio il contagio della città che ti nutre, ti elettrizza. Se mi dovessi fotografare così nella mia mente a New York, ho questi occhi spalancati pieni di stupore perché c’è così tanto che ti passa davanti che per una giovane attrice è incredibile. È stato un punto di svolta enorme. Anche il confronto con gli insegnanti del Lee Strasberg e con gli altri allievi, che provenivano da ogni parte del mondo, è stato molto costruttivo e divertente.
L’arte c’è sempre stata, arrivi da una famiglia creativa: madre pianista e zia ballerina. Quanto è stato importante crescere in un contesto così creativo? Sin dall’inizio sognavi di diventare attrice o ti immaginavi diversa?
Ho avuto sin da piccola questa passione, non sapevo bene come l’avrei canalizzata, ma ho sempre saputo di voler fare qualcosa di creativo.
Hai studiato pianoforte per moltissimi anni, la musica ha ancora un ruolo importante nella tua vita? C’è una colonna sonora che ti accompagna nella costruzione dei tuoi personaggi?
La musica classica è per me un linguaggio dell’anima. Ci sono cresciuta quindi sono delle sonorità familiari, a cui sono molto legata. In generale sono una che ascolta tanto, non ho un unico genere di riferimento; mi piace tantissimo anche il jazz, nonostante non sappia suonarlo. La musica è una contaminazione che mi porto dietro anche nella costruzione dei personaggi, è qualcosa che mi è rimasto dentro. Penso sempre alle playlist dei miei personaggi, a che tipo di sonorità portano in scena, sia a teatro sia al cinema.
Non solo cinema, ma anche teatro. Nel 2012 hai vinto il Premio Ubu, considerato il riconoscimento più importante di teatro in Italia. Quali sono le differenze più significative tra l’uno e l’altro?
Una differenza di mezzo, ovviamente. Il teatro ha proprio un codice tecnico diverso rispetto al cinema: a teatro c’è una portata diversa della voce, un uso del corpo che va molto più completo, sei lì al 100%, davanti al pubblico, e quel momento è l’unico che vive, non è modificabile. Poi sarà diversa l’esperienza di ogni spettatore così come lo è al cinema. A essere lo stesso credo sia il processo che accende l’animo dell’attore. A teatro attraversi dei testi che sono molto più verticali, sentimenti più grandi, basta pensare alla tragedia greca. Al cinema, invece, hai delle sfumature più piccole sulle quali lavorare, vai a indagare su venature diverse, è un lavoro più al microscopio. Con questo non voglio ovviamente dire che il lavoro teatrale sia più superficiale, anzi, c’è tantissimo radicamento emotivo anche lì e trovo che negli anni sia sempre più così. L’immagine convenzionale dell’attore di teatro che parla con la voce impostata non esiste più, viceversa il cinema si sta aprendo di più al mondo degli attori di teatro. Penso a tanti colleghi e colleghe che dal teatro si stanno facendo strada nel cinema come Barbara Ronchi, Fausto Russo Alesi… Sono due mondi che stanno imparando a comunicare sempre di più, com’era un tempo del resto, ed è una cosa che a me piace molto perché il teatro mi ha dato la densità, quella presenza scenica che solo lui sa darti. In questi giorni poi sto pensando molto al tempo, cinematografico e teatrale, è un oggetto di indagine per me. Non ho ancora risposte a riguardo, ma è un’indagine che sto portando avanti: prendo appunti sul set, guardo tanto al monitor i miei colleghi recitare. Mi piace guardare le prove degli altri, sia al teatro sia al cinema, è una grande scuola, ti fa riflettere.
Una parola chiave che accomuna un po’ tutti i personaggi da te recentemente interpretati è “libertà”. Sofia, Rita di Summertime, ma anche Margherita in Fedeltà. Quanto è importante e cosa significa per te essere una donna libera?
Volendo parlare di sentimenti che ci attraversano, ti direi riuscire a essere indipendenti e aperte all’altro. Libere senza difendersi troppo dall’altro, avere una propria centratura che permette di evolversi, di crescere. Poi, sai, è veramente un momento storico molto complesso, dove da un lato la figura della donna si sta completamente emancipando, dall’altro vediamo invece delle restrizioni e delle repressioni di cento anni fa. Una cosa che ho notato è che è molto più facile fare cento passi indietro piuttosto che farne cento in avanti. Lo dico a me stessa tutti i giorni, occhio a non buttare via queste piccole conquiste che facciamo. Nel mio percorso, essere libera, è cercare di trovare una centratura dalla quale potermi muovere senza paura, pur sapendo di andare in contro a critiche, trovare il mio spazio creativo. Avere una voce è libertà.
Sei coraggiosa come i personaggi che interpreti?
Non ho una costante: ho dei momenti più coraggiosi e dei momenti vigliacchi, come tutti. Vorrei essere virtuosa, ma non sempre riesco onestamente. Ci sono momenti in cui vorrei fregarmene magari, avere più sicurezza, essere più sfrontata e portare avanti delle cause e invece poi mi scontro con la piccolezza delle mie paure e paranoie. Altre volte, brillo un po’ di più… vado a momenti. Credo, però, si possa trovare un equilibrio anche in questi alti e bassi. Non riguarda propriamente il coraggio, ma una costante che sto cercando di mantenere è una certa gratitudine, una costanza nel restituire impegno alle cose che mi capitano.
Un regista con cui sogni di lavorare?
Tantissimi, difficile sceglierne uno. Sicuramente Alice Rohrwacher, che è una voce poetica, ma in generale mi piacerebbe lavorare con persone giovani che fanno anche opere prime, che sperimentano. Giulia Steigerwalt, per esempio, mi piace tanto… ho apprezzato moltissimo la grazia con la quale ha raccontato la sua storia in “Settembre”, come ha maneggiato i personaggi.
Il tuo rapporto con i social?
Con “Mare Fuori”, è per me un momento di amplificazione molto forte; il pubblico sente di avere un canale diretto con noi attori del cast ed è una cosa meravigliosa ma, proprio per questo motivo, va necessariamente messa una distanza secondo me. Adoro la fotografia, la grafica, l’immagine, il colore, il racconto, il come ti racconti, però mi è molto chiaro, allo stesso tempo, che è una rappresentazione, non è un ritratto fedele di chi sono. Lo prendo come un gioco. Ci sono senz’altro delle cose belle legate a questi canali, ma vanno sempre usati con misurazione. Oggi poi tantissimi attori utilizzano i social per far capire che sono diversi dai loro personaggi, è un mezzo che umanizza anche le figure. Un tempo c’era riserbo assoluto, basti pensare alle grandi dive del passato. Adesso, invece, ci abbassiamo – ovviamente in senso positivo – a far vedere anche momenti della nostra quotidianità, cosa impensabile nel divismo di tanti anni fa.
Il tuo rapporto con la bellezza, invece, ti piaci?
Intendo la bellezza come un concetto molto grande, la cerco tanto e in tutto: nei luoghi, in un vestito, in un profumo, nelle cose antiche, nei rapporti. La bellezza è tanto più che un’immagine riflessa in uno specchio. L’altro giorno, per esempio, ho preso un ascensore in vetro a Napoli e a un certo punto, mentre salivo, iniziavo a vedere il mare e non me l’aspettavo. Ho detto wow… questa è bel- lezza che ti invade. Napoli poi è meravigliosa, una bellezza nera, malinconica, ha tanti volti.
Un’ultima domanda, che proprio non possiamo non farti. Ti ameremo nella quarta stagione di “Mare Fuori”?
Ovviamente non posso dire nulla sull’evoluzione del mio personaggio, ma sicuramente io ce la metterò tutta. Questo successo che abbiamo avuto, e sento di parlare a nome di tutto il cast, non ci ha fatto sedere sugli allori. Siamo da giorni sul set con un’energia enorme… sarà indubbiamente una serie diversa, com’è giusto che sia, ma comunque coinvolgente. Io ho provato grandi emozioni leggendo le sceneggiature, spero che il pubblico si possa emozionare allo stesso modo.