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L’immaginazione dell’opera è sempre intensa, molto pensata e valutata, poi la realizzazione, dal disegno con il compasso all’intaglio, e poi finalmente vedevo il cerchio in movimento, azione che rivelava altre dimensioni della forma elementare», racconta Marina Apollonio, artista dell’Arte op e cinetica e dell’arte programmata che hanno preso forma negli anni Sessanta. «Un tempo la realizzazione era la fase più lunga, oggi invece è tutto veloce con il computer e non c’è più la sorpresa del movimento perché lo posso vedere già sullo schermo», dice, e ad aiutarla con le nuove tecnologie è suo figlio Alvise, avuto con Giancarlo Zen, amato marito e artista di cui Apollonio curerà una mostra a Padova il prossimo anno. Oggi invece, al museo Guggenheim di Venezia, è in corso – fino al 3 marzo 2025 – la sua più ampia personale, curata da Marianna Gelussi e intitolata “Marina Apollonio. Oltre il cerchio”, una retrospettiva sulla carriera dell’artista dal 1963 al presente. «In questa mostra c’è lo scorrere della mia vita», racconta Apollonio, che tornando a Venezia si è rivista bambina, quando con suo padre andava a trovare Peggy Guggenheim «in quel giardino delle favole». Persino l’acqua della laguna, «quella massa movente di acqua» le appare ora diversa. «Un bel ritorno a casa», dice con voce lieve.

Nata a Trieste il 12 novembre del 1940, studentessa all’Accademia di Belle Arti di Venezia dove si era trasferita con la famiglia a soli otto anni e dove crebbe circondata da artisti e intellettuali, nel 1960 cominciò a lavorare in uno studio di architettura contro il volere del padre, il critico.

Mariana Apollonio, 1965, Archivio Marina Apollonio

Una vita tra arte e scienza: le opere di marina Apollonio sono in mostra al Guggenheim di Venezia, città dove l’artista ritorna portando con sé i suoi primi ricordi

La sua arte depersonalizzata, in opposizione al concetto di astrazione espressiva – un’arte che cambia la percezione dello spazio secondo una pulsione “attrattiva-espansiva e fluido-elastica – è in scena nella più grande retrospettiva a lei mai dedicata.

d’arte Umbro Apollonio, ricorda: «Ero fissata con l’idea di fare il liceo artistico, ma il babbo non voleva, diceva che avrei patito la fame, e dopo l’Accademia, quando iniziai a lavorare, i miei genitori telefonarono all’architetto dello studio dove lavoravo con l’intenzione di farmi lasciare. Erano protettivi, ma io ero portata sia per la matematica sia per l’arte, tutto il resto mi veniva difficile». 

Due anni dopo, entrata a contatto con gli artisti dell’Arte programmata e il loro approccio scientifico e lo slancio utopico, inizia a dare una forma alla propria visione, realizzando i primi rilievi metallici a sequenze cromatiche alternate con materiali industriali. «Siamo state contagiate dal virus dell’arte», ricorda le risate e le riflessioni con l’amica Dadamaino: «Abbiamo preso un virus sin da piccoli, sto ancora cercando di capire ma dev’essere nel dna, perché in quel giro di artisti avevamo una certa impostazione mentale e ci trovammo tutti», dice, riferendosi alle amicizie e le conoscenze vicine come alcuni artisti dei gruppi N di Padova, T di Milano, Azimuth con Enrico Castellani e Piero Manzoni, o artisti dello Zero di Dusseldorf come Bruno Munari, da cui ha «imparato molto, traendo ispirazione dal tempo insieme». Nel 1966, Apollonio descrisse la sua ricerca plastica come «un’indagine sulle possibilità fenomeniche di forme e strutture elementari», come il cerchio, perché «ha in sé l’astrazione totale in quanto è costituita da un programma matematico» e così «l’azione si svolge con assoluto rigore in un rapporto diretto tra intuizione e verifica: intuizione a livello ottico e verifica sul sistema matematico». 

Oltre il Cerchio, Marina Apollonio, Peggy Guggenheim Collection, Photo Matteo De Fina

Apollonio studia quindi “le possibilità strutturali” della forma primaria del cerchio, per «renderla attiva cercando il massimo risultato con la massima economia». Perciò l’idea condivisa con le ragioni e le ispirazioni della Op art, come il concetto di un’arte depersonalizzata in opposizione all’astrazione espressiva, perché «l’artista importante, grande e unico non andava più bene, avevamo bisogno di un’opera che fosse replicabile e a cui tutti potessero accedere». Dalle opere in bianco e nero al colore, che «non ha forma» spiega Apollonio e quindi ha bisogno di una “diffusione”, i rilievi circolari, le gradazioni, le spirali e le strutture in acciaio e alluminio, fino alle espansioni cromatiche su lana e tessuto, scelta quest’ultima che coincide con il periodo della maternità: «Avevo meno tempo perché dovevo occuparmi di mio figlio, e la materia mi piaceva tanto. Tingevo la lana da sola cercando i vegetali sui colli per i colori più particolari, mi sono divertita e potevo guadagnare qualcosa stando a casa». 

Apollonio ha sempre saputo di essere “all’avanguardia”, e alle nuove generazioni dice che «bisogna seminare e non rinunciare alle proprie passioni, perché il virus non passa, non si guarisce mai», e poi aggiunge: «Io ho pensato che dopo la mostra mi sarei fermata, invece vorrei soltanto accelerare».

di Lavinia Elizabeth Landi