Lo scorso dicembre si è inaugurato l’inizio di una nuova era gastronomica al Grand Hotel des Bains Kempinski di St. Moritz, con il debutto di Billionaire St. Moritz. Un evento esclusivo che unisce una Dinner Show & Club Experience unica, firmata dallo chef Batuhan Piatti, un talentuoso professionista con radici culturali italo-turche, che unisce la cucina mediterranea alla raffinatezza delle tendenze culinarie moderne. Con una carriera internazionale che lo ha visto collaborare con i migliori nomi della gastronomia, Chef Piatti ci svela la sua visione di alta cucina, in cui ogni piatto racconta una storia di tradizione, passione e innovazione. In questa intervista, ci parla di come la sua esperienza con il Billionaire e il suo approccio alla cucina fusion-italiana hanno dato vita a un’esperienza culinaria esclusiva e inimitabile.
- 1. Partiamo dalle origini: nome turco, cognome italiano, i latini direbbero “nomen omen”, il destino nel nome. Nel suo caso è una sintesi che racconta molto bene la sua capacità di mettere insieme ingredienti e storie differenti. Quanto contano per lei gli ingredienti culturali e quelli alimentari?
Sono un italo-turco, figlio di una madre milanese e di un padre di Istanbul, cresciuto tra l’Italia e la Turchia. Ho avuto la fortuna di avere entrambe le nonne molto capaci ai fornelli, che preparavano cene e pranzi totalmente tradizionali, creando occasioni speciali per ogni ritrovo. Mi ricordo dei pranzi e delle cene di Natale infiniti, dove, senza esagerare, ci si sedeva il 23 dicembre e ci si alzava la sera del 25. Mia nonna italiana, romagnola di Cesena, si alzava alle 5 del mattino per preparare il ragù, che cuoceva lentamente a lume di candela, per ottenere un ragù di carne come si deve, mentre nel frattempo tirava la sfoglia per le lasagne, le tagliatelle, i tortellini, e preparava arrosti che venivano consumati nel grande tavolo di famiglia, dove tutta la famiglia si riuniva per l’occasione. La stessa cosa accadeva a Istanbul con mia nonna turca, che preparava grandi piatti mediterranei: capretti, agnelli arrosto, melanzane e pomodori, e riso pilaf, addobbando il tavolo della casa di famiglia. Quindi, grandi raduni, con al centro la tradizione, la famiglia e i sapori mediterranei, che ho cominciato a scoprire fin da giovanissimo.
- Qual è stato il momento più significativo per lei, quello che ha veramente cambiato la sua visione della cucina?
La mia visione della cucina cambiò radicalmente quando ebbi la fortuna di essere accettato dallo chef Sergio Mei nella sua cucina del Four Seasons di Milano, in via Del Gesù, una parallela di via Montenapoleone. Era una vera istituzione, e all’inizio degli anni 2000 solo pochi privilegiati avevano l’opportunità di far parte di quella brigata. Ogni giorno, sette giorni su sette, ero a contatto con i migliori prodotti italiani, che venivano portati allo chef per essere trasformati in cene, pranzi e banchetti internazionali. Cene tematiche ed eventi a base di tartufo e Barolo per aziende come Cartier, Armani e altri giganti della moda, sportivi, politici, artisti, capi di stato che venivano in Italia e alloggiavano all’hotel. Fu proprio lì che entrai in contatto con i migliori prodotti culinari, che lo chef trasformava in capolavori senza snaturarli, rimanendo fedele alle ricette e alle tradizioni di una volta. “La cucina fusion è solo confusione”, diceva il grande chef, paragonando invece la cucina tradizionale a una giacca blazer, dicendo che non sarebbe mai passata di moda. Ed aveva ragione. Valorizzare il prodotto rimanendo fedeli alla tradizione: questa è la sua filosofia, che è diventata anche la mia.
- Oggi il suo nome è sinonimo di eccellenza gastronomica. Come descriverebbe il suo percorso professionale fino a questo punto e cosa significa per lei raggiungere un livello così alto di riconoscimento?
Nel corso della mia carriera ho avuto la fortuna di partecipare ad aperture di ristoranti e alberghi internazionali con grandi budget, che mi hanno permesso di imparare e crescere, affinando le mie abilità organizzative e la mia capacità di essere reattivo in ogni situazione, ovunque mi trovassi. Ogni nuova esperienza ha contribuito alla mia crescita professionale.
- C’è un piatto in particolare nel suo menù che considera una vera e propria firma della sua cucina? Che storia si cela dietro la sua creazione e cosa rappresenta per lei?
Io sono un mediterraneo, e la ricchezza e varietà dei prodotti culinari di questa parte del mondo sono senza pari. Qualunque ingrediente, dalla carne al pesce, cresciuto o coltivato nel Mediterraneo, deve essere trattato con sapienza e rispetto, rimanendo fedele alle radici della tradizione. Il mio approccio in cucina parte sempre dal prodotto, che deve essere valorizzato nella sua semplicità, senza mai snaturarlo.
- Nel mondo della ristorazione di lusso, dove ogni dettaglio è fondamentale, come mantiene il giusto equilibrio tra esclusività e accessibilità, evitando che l’esperienza diventi troppo distante dal cuore della sua cucina?
Il vero lusso in cucina, per me, è l’artigianalità. Interpretare le ricette di una volta con metodi tradizionali, con pazienza e attenzione, valorizzando il prodotto che deve essere il protagonista del piatto. Un piatto come lo stinco di fassona brasato con olio maremmano, lentamente cotto con sedano, carote e scalogno, bagnato con un buon Barolo e cotto per sei ore a bassa temperatura, accompagnato da un risotto Carnaroli o Vialone Nano con pistilli di zafferano, rappresenta per me il vero lusso. Cose che ormai pochi fanno, per mancanza di tempo e risorse, ma che noi prepariamo con passione per i nostri ospiti. È un’esperienza che unisce tradizione e il prodotto come protagonista, ed è questa la vera definizione di lusso in cucina.
- Il cibo è la lingua che ci racconta la cultura e la storia di un luogo. Quando si impara una nuova lingua, si dice che bisogna anzitutto imparare a “pensare” in quella lingua per comunicare nel modo migliore. In che lingua pensa Chef Piatti quando lavora alle sue creazioni?
Quando lavoro alle mie creazioni, penso innanzitutto in base alla realtà e ai prodotti del territorio. È fondamentale valorizzare i prodotti locali e inserirli nel menu. La reperibilità del prodotto è essenziale per mantenere una qualità costante, e quindi bisogna sempre cercare di restare ancorati al territorio, scoprendo e integrando ingredienti che possano arricchire i piatti.
- In un ristorante così esclusivo, la relazione con il cliente è altrettanto importante quanto la cucina stessa. Come si assicura che ogni ospite si senta parte di un’esperienza privata e unica, pur mantenendo l’eleganza e l’esclusività del luogo?
Cerco sempre di interagire personalmente con gli ospiti, chiedendo le loro preferenze, eventuali intolleranze e cercando di capire i loro gusti. Poi creo un menu degustazione su misura per loro. Personalizzare l’esperienza è fondamentale per creare un rapporto speciale con ogni ospite.
- Come è composta la sua brigata di cucina?
Dirigo tante cucine in diverse parti del mondo, da Dubai a Montecarlo, dall’Italia a St. Moritz, con ragazzi che mi seguono da più di 12-15 anni. Il nostro lavoro non è un “one man show”; è necessaria una brigata solida, composta da persone di fiducia, pronte a fare sacrifici per un’unica causa: portare l’eccellenza del prodotto al tavolo.
- Quanto conta nella sua visione di fine dining l’accoglienza nel ricevere il cliente? In altre parole, quanto vale la sala per fidelizzare la clientela?
L’ho sempre detto e lo ribadisco: la proporzione è 50% cucina e 50% sala. Un piatto eccellente con un servizio pessimo è come un piatto mediocre con un servizio impeccabile. I due aspetti devono essere perfetti e in sincronia per ottenere il risultato che vogliamo. Non esiste un’altra formula.
- A proposito di clientela, quali sono le diverse esigenze di una clientela internazionale come la sua?
Io preferisco usare il termine “ospite” piuttosto che “cliente”, perché trovo che sia un concetto più sano. Ogni ospite che ci visita va guidato e indirizzato in base ai suoi gusti, offrendogli un’esperienza su misura, pur rimanendo all’interno dei nostri standard culinari.
- Come vede il futuro della ristorazione di lusso e alta gastronomia? Crede che ci sarà una nuova evoluzione verso esperienze più personalizzate e intime, o la tradizione continuerà a prevalere?
La tradizione continuerà a prevalere. Le mode del momento, che vengono spesso etichettate come “esperienze”, sono inevitabili e necessarie per apprezzare sempre di più la tradizione. La tradizione è la base su cui costruire ogni esperienza gastronomica di valore.
- Oscar Wilde diceva che “i migliori affari si fanno a tavola”, lei che piatto preparerebbe per discutere di un suo affare importante? Se potesse creare un menù per una cena “impossibile”, quale personalità storica inviterebbe e cosa cucinerebbe per loro?
I migliori affari si fanno a tavola, perché mangiare è un atto naturale in cui ognuno si libera dalle proprie maschere e si connette con gli altri in modo più spontaneo, sincero e aperto. Il tavolo, inoltre, rappresenta la generosità e la condivisione; quindi, è un luogo ideale per discutere e comprendersi. Durante il mio percorso ho avuto la fortuna di cucinare per molti personaggi famosi, come Obama, Gorbaciov, il Principe Alberto e tanti altri.
Se potessi creare un menù per una cena “impossibile”, per una personalità storica, da buon italo-turco probabilmente mi piacerebbe organizzare un banchetto per l’imperatore romano Giulio Cesare e per l’imperatore ottomano, il Sultano Suleiman.