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Lo incontriamo e fotografiamo nella sua casa a Milano, dove è di passaggio, per presentare il suo libro ” Marcelo Burlon confidential county of Milan”

Iniziamo presentando la tua Fondazione?

Ho deciso di aprire la Fondazione per strutturare una cosa che già stavo facendo da tanto tempo: fare del bene e aiutare gli altri in un modo più organico e con persone che si occupano dei vari progetti. Con Sfera avevamo fatto una maglietta per supportare i City Angels, avevo creato poi un’altra maglietta con la Croce Rossa Italiana, i proventi finanziavano un rifugio per adolescenti omosessuali vittime di discriminazione e violenza. I progetti sono sempre stati tanti…

C’è qualche progetto che la Fondazione sta già seguendo?

Tra i più importanti ci sono due libri. Una denuncia sul razzismo nella moda, con testimonianze di modelle afroamericane che raccontano cosa è cambiato dagli anni 70 a oggi, scritto da Jason Campbell. E un libro fotografico con Alejandro Chaskielberg, fotografo del National Geographic, sui 4 elementi, partendo dal fuoco, che ha incendiato la Patagonia ed è arrivato a 10 metri da casa mia. Questa pubblicazione è per raccogliere fondi per le persone che hanno perso le loro case. Sto già aiutando 30 famiglie, ho mio fratello là che coordina l’uso dei fondi necessari all’acquisto dei materiali di costruzione per le case. Ho creato delle borse di studio: un ragazzo sta studiando medicina per esempio.

Cosa ti spinge a occuparti del prossimo?

Da sempre ho cercato di dare voce a chi non ce l’avesse. Quando hanno chiuso i porti ho fatto sfilare i ragazzi italo-africani, un anno ho partecipato alla Fashion Week di Tel Aviv con un casting solo di ragazzi etiopi, per denunciare la loro discriminazione. Ho sempre sfruttato il mio marchio e il potere mediatico che ne derivava per sensibilizzare e aiutare.

L’inclusività oggi sembra anche essere un cavallo vincente. C’è chi ci crede veramente e chi lo fa perché è “di moda”.

Ci sono colleghi stilisti che non si sono mai schierati, ma al momento di vendere due borsette hanno stampato due papà. Un modo per cercare di sfruttare una certa sensibilità senza però andare davvero in fondo alle problematiche sociali che si vivono quotidianamente. Alla fine dei conti, chi in realtà lo fa di cuore, emerge, e comunque non è una competizione.

Come hai inaugurato la Fondazione?

A Ibiza con un Festival insieme a C2C nella mia casa. Il Festival era curato da Arca, musicista venezuelana incredibile. L’ho conosciuta a Ibiza, siamo diventanti molto amici e poi ho coinvolto C2C, realtà musicale torinese con cui volevo collaborare da anni, perché non sono commerciali e poi rispecchiano molto quello che ero io.

Non è facile avere successo, come ci si riesce?

Non c’è una ricetta, mi sono trovato al posto giusto nel momento giusto, cavalchi un trend, lo fai diventare tuo, arrivi dritto agli adolescenti, che in qualche modo ti prendono come esempio, non solo come creativo, ma per la storia che hai dietro. Sono arrivato dalla Patagonia a 13 anni con la mia famiglia per lavorare in fabbrica nelle Marche, poi ho pulito stanze di hotel con mia mamma. Questa serie di esperienze mi ha portato dove sono oggi.

Ci si arriva andando contro le regole e il sistema. Dopo aver lavorato per anni nei club, ho aperto la mia agenzia di eventi, sono un outsider, lavoro per gli stilisti, ma con un piede fuori, mai dentro del tutto, ho sempre cercato di mantenere la mia storia, i miei ideali, il mio concetto di divertimento, che era incentrato sulla musica e sullo scambio tra le persone. Sono tante le cose che creano il successo di una persona. Ne hanno fatto un caso di studio nelle università. Sono stato in Bocconi riempendo l’Aula Magna, con mille studenti interessati alla mia esperienza.

Ti ha emozionato?

Sì. Puoi immaginare cosa ha rappresentato per me che ho studiato poco andare in Bocconi o in altre scuole, come la Naba, la Marangoni, lo Ied. Racconto la mia vita, e questo ispira molto i giovani, che mi dicono “sei il mio esempio, voglio diventare come te”. Io mi fermo e chiedo sempre: “Ok, ma quale parte di me ti ispira? Quando sono arrivato al successo o tutto quello che c’è stato dietro e prima. Perché io ho fatto la fame, non riuscivo a salire sul tram perché non avevo i soldi per il biglietto”. 

Di che anni stai parlando?

Fine anni ‘90, quando sono arrivato a Milano, avevo 20 anni. Con grande voglia di fare, di fare le mie storie, senza stare alle regole degli altri. È da sempre il mio modo di vedere le cose, che poi ho seguito anche con il mio marchio, con New Guards e gli altri che abbiamo lanciato, e che sono oggi una realtà molto importante nella moda mondiale. Il libro, che ho appena pubblicato per Rizzoli New York, è per raccontare tutto quello che c’è stato prima, come ho fatto a costruire il marchio. Non è che uno arriva e lancia un brand, ci sono anni e anni di gavetta.

Quanto è stato difficile ricordare e comporre il libro, con una parte di te che non c’è più?

C’è e sempre ci sarà, quella parte si è solo trasformata. Il libro non l’ho scritto io, ma Angelo Flaccavento, una delle penne più importanti della moda, ovviamente seguito da me e dall’art director Macs Iotti e da mio marito Bratislav. Il libro è stata catarsi completa: sono andato dentro gli archivi e a vedere tutti i passaggi. Una timeline racconta cosa è successo dal 76 al 2021, i momenti più importanti della mia vita, personale e professionale.

Se tu dovessi dire oggi chi sei.

Sono un comune mortale che ha avuto molta fortuna, che si è costruito la propria sorte e la condivide con gli altri. 

Devi dire grazie a qualcuno?

A me stesso, e forse a mio fratello che mi ha sempre spinto a fare quello che volevo “vai, fai”. Pratico il buddismo dal ‘96. C’è una base molto importante dietro. Posso essere frivolo, ma fino a un certo punto.

I social e la glorificazione del successo sono predominanti. Cosa ne pensi?

Credo di essere stato uno dei pionieri ad avere utilizzato i social. Sono a cavallo tra l’analogico e il digitale. Quando i social media non esistevano, erano i personaggi come me a fare da ponte tra il marchio e le persone, eravamo la chiave per arrivare a un certo tipo di pubblico. Oggi i social sono importanti, ma quando abbiamo fatto il mio festival a Ibiza, abbiamo tolto i cellulari a tutti gli invitati e dato una telecamera a ognuno, da appendere al collo, per registrare quello che accadeva. Da 100 ore di filmato l’artista Weirdcore, che segue i Radiohead, Bjork, Arca, ha tratto un video di un’ora, incredibile, da brivido. 

Hai fatto anche la maglia per il Napoli! Lì ti amano alla follia. Come è stata quest’esperienza?

Ho un rapporto molto speciale con Napoli, forse perché sono argentino come Maradona. Napoli è incredibile e ho suonato lì molto volte come dj, facendo sempre il pienone. Poi arriva Kappa, con cui avevo già collaborato, che mi invita a fare qualcosa con loro. È nata una capsule di magliette, pantaloncini, calze, tute. È sparito tutto in un un’ora!

Quando hai capito di aver raggiunto il successo nella moda?

Non saprei. Forse a NY quando mi ha fermato un ragazzino di 15 anni e poi, dopo qualche metro, un signore di 50. Lì mi sono accorto che ero arrivato a generazioni diverse. 

La moda oggi?

Stiamo vivendo un periodo dove c’è libertà assoluta e ognuno può fare quel cazzo che vuole. Puoi creare in totale autonomia, senza stare alle regole del mercato e dei trend.

Essere veri nella moda è molto difficile: non basta più mettere una modella afroamericana in copertina, bisogna andare in fondo, agire in modo concreto.

Chi ti piace?

I giapponesi sicuramente, trovo pazzeschi Kolor. Vado sempre per i classici, come Yohji e Comme. Sono un fan di Balenciaga, la loro ultima sfilata è stata geniale.

Nella musica chi ti colpisce?

Arca è la numero uno, non ha paragoni, è nuova, trasversale: può creare le musiche per Dior con 50 elementi di orchestra o tecno per i club malfamati di New York. Poi sono un nostalgico e vado molto sulla musica argentina: un artista che oggi non c’è più, Luis Alberto Spinetta, che ha creato diversi gruppi rock negli anni 70. Amo Achille Lauro, perché è mio fratello di Pechino Express. Amo Sfera, da quando nessuno se lo filava e non aveva una lira e oggi siamo soci. 

Ecco, come è nato il progetto di Healthy Color con lui e Andrea Petagna?

Avevano lanciato già Milano. Volevano espandersi e ci siamo detti: Petagna è sport, io musica e moda, Sfera musica, uniamoci, facciamo una roba importante in tutta Italia e se riusciamo anche all’estero.

Parliamo di club: oggi hanno perso quella forza che avevano anni fa.

Subentrano le feste private, che sono forse più interessanti. I club sono in mega difficoltà, non c’è un supporto dal governo e non ci sarà, perché ci hanno sempre visto come il diavolo. 

Oggi si rincorre la sostenibilità, cosa ne pensi?

Non è facile cambiare tutta la “macchina”. Lo stiamo facendo con New Guards, ma ci vuole tempo. Le auto elettriche inquinano? Tu non inquini quando hai la macchina, ma per costruire quella macchina e per smaltire le batteria… Spotify inquina di più. Quello dei mega server, per esempio, è inquinamento invisibile, ma violento.