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Siamo andati a trovare Fabrizio Plessi, artista immenso e di fama mondiale, nel suo studio a Venezia. Per ringraziarlo della sua partecipazione all’evento dei 20 anni di Posh e per omaggiare il suo lavoro. Siamo stati catapultati in un mondo fatto di sogni, passioni, abnegazione. Anticipatore da sempre, vive oggi uno straordinario momento, quello che lui definisce l’età dell’oro. La sua energia dirompente, la fiducia nel futuro, nel lavoro, la coerenza con la quale ha percorso il mondo dell’arte abbattendo barriere, rappresentano una straordinaria lezione di vita.

 

Venezia isola della Giudecca, il motoscafo attracca rapido. Fabrizio Plessi con il passo incerto di chi ha vissuto tanto e ne sente le fatiche, mi viene incontro con un sorriso radioso. È felice, mi prende sottobraccio e accompagna tra quelle che erano le vecchie strutture della Dreher. Arriviamo a uno stabile, un paio di portoni, qualche scala e poi ecco che l’ultima porta si apre su uno studio, perfetto, lucido, ordinato, ricco di luce, legno e archivi così curati da sembrare quasi irreali. È qui che questo signore disegna, immagina, pensa e progetta le sue opere. Ha realizzato più di sedicimila disegni, sì perché per lui il disegno anticipa la parola, l’idea…

Grande artista, sempre anticipatore, ha pagato all’inizio un’Italia chiusa, raggomitolata su pochi critici che amavano correnti diverse. Ma il vero artista non si deforma per il mercato, non si piega per il compromesso e lui è andato avanti per la sua strada aspettando il successo, quello vero arrivato all’età di circa 40 anni. Fabrizio Plessi ha sempre indagato il rapporto fra natura e artificio e sin dagli anni ‘70 ha sperimentato e nelle sue prime opere è evidente quanto il suo lavoro si sia sempre basato su studi rigorosi.

Prima di arrivare all’opera finale Plessi annota, crea disegni, progetta la struttura e cerca di ottenere una visione del progetto. I video sono la fase finale di un lungo percorso che dall’idea si traduce in realtà.

È così che sono nate le opere in cui la forza dell’acqua che scorre sembra andare al di là del confine dell’opera stessa, il bagliore dei lampi illumina brevemente il buio della notte, il fuoco si manifesta nella striscia segnata dal passaggio della lava, le “Cascate d’oro” sembrano visioni che recuperano la preziosità dell’antica arte del mosaico.

Fabrizio Plessi usa la tecnologia come materia da plasmare, così come uno scultore farebbe con il marmo, così come anche un altro grande della videoarte come Bill Viola fa da anni.

Fabrizio Plessi è nato a Reggio Emilia nel 1940. Vive e lavora a Venezia e ha partecipato a importanti rassegne come documenta di Kassel e a quattordici edizioni della Biennale d’Arte di Venezia. Ha esposto al Guggenheim di New York, alle Scuderie del Quirinale di Roma, al Museo Puškin di Mosca. Al Brennero, negli spazi un tempo occupati dalla dogana tra Italia e Austria, nel 2013 è stato inaugurato il Plessi Museum, progettato dall’artista come un’opera di architettura, scultura e design. Altri esempi significativi sono Bronx, opera presentata alla Biennale di Venezia del 1986, e Roma, esposta nel 1987 a documenta 8 di Kassel.

“Ero un ragazzino che veniva dall’Emilia sono arrivato a Venezia e ho trovato una città con un mood unico. I grandi letterati e musicisti passavano tutti da li, da Peggy Guggenheim. Ho avuto la fortuna di avere un tutore, un insegnante straordinario che era Edmondo Bacci, tutti i giorni veniva nel mio piccolo studio della Giudecca e commentava i miei lavori. Forse è la persona che ho amato più nella mia vita. Mi ha insegnato a vedere le cose e a pensarle. Aprirsi alla modernità era importante allora per allontanarsi dalla pittura piccola borghese del tempo e comprendere la vera visione che era di artisti come Lucio Fontana. Bacci mi ha veramente insegnato a vedere l’arte. Fin dagli anni ‘60 avevo la certezza che la tecnologia avrebbe avuto un ruolo predominante in futuro. Nasco con la televisione in bianco e nero, quella bombata, sinuosa, femminile. Proprio questo tipo di televisione era perfetta per le mie “acque”, dava idea del flusso. Ho amato Picasso, più volte sono andato dove viveva, ma purtroppo non sono mai riuscito a incontrarlo e mi dispiace moltissimo. Un altro artista immenso è stato Cy Twombli, ho sempre amato la sua libertà senza regole estetiche.

Avevo bisogno della spiritualità dell’opera. L’immaterialità faceva parte del mio lavoro, ho sempre pensato all’acqua come elemento di riferimento, e l’acqua e il video avevano delle segrete complicità, entrambe sono blu, sono liquide, si muovono, sia l’acqua sia il video vivono di luce, allora ho teorizzato che un elemento naturale come l’acqua poteva convivere con l’elettronica, il digitale di oggi. Quello che mi fa ridere è che oggi sono contemporaneo su un’attività di 50 anni del mio lavoro. Ero fra i pochissimi in Italia ed è stato un grande problema per la critica: si esaltavano e valorizzavano l’arte povera con Germano Celant e la transavanguardia con Achille Bonito Oliva, ma nessuno ha difeso l’arte e la tecnologia. Mi sono trovato solo, ma a ben vedere è stata la mia forza non avere nulla a che fare con i gruppi, con la videoarte.

Ho sempre pensato che mettere insieme, il ferro, la paglia, il carbone, il marmo, gli elementi dell’arte storica con la tecnologia potesse essere unico. Il mio lavoro è stato quello inventare qualcosa di tecnologico che riprendesse la tradizione, perché per me il futuro non può esistere senza il passato e questa posizione ha fatto si che non fossi visto bene da nessuno.

L’affermazione però è arrivata, seppur in ritardo. Ho dedicato la mia vita all’arte e all’insegnamento trascurando a volte famiglia e figli. Da giovane insegnavo al liceo artistico e contemporaneamente ero studente all’Accademia di belle arti. Avevo vinto la cattedra di pittura perché sono un grande disegnatore, a 16 anni copiavo Tintoretto con facilità. Mi ha insegnato mio zio che si è salvato la vita facendo i ritratti ai gerarchi. Ho imparato a 5 anni prima a disegnare e poi a scrivere. Avevo una grande capacità che mi ha aiutato molto a rappresentare quello che volevo realizzare.

A un certo punto mi ha chiamato il ministro della Cultura tedesco e ha voluto che andassi a insegnare alle scuole dei Nuovi Media a Colonia dove ho avuto la cattedra per dieci anni. Ricordo il discorso iniziale dell’apertura dell’Università dove spiegai che l’approccio ai nuovi media doveva essere come il morso a un panino, perché cosi si univano tutti i sapori insieme. Questo è l’attraversamento dei linguaggi. Ho insegnato umanizzazione delle tecnologie dagli anni novanta.

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