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Quello di Chiharu Shiota è un multiverso filato, dove i ricordi fluttuano senza sosta per poi essere inesorabilmente trattenuti da un fermoimmagine destinato a durare per sempre. Una geografia siderale che prende forma dalle mappe delle sue installazioni labirintiche che annoda e attorciglia con filo, corda e lana colorata, come un’Arianna dell’arte contemporanea.

A metà strada tra manufatto e performance, le sue gigantesche e aggrovigliate ragnatele inghiottono interi ambienti, tenendo prigionieri a mezz’aria oggetti comuni ormai in disuso, come vestiti, scarpe, chiavi, valigie e letti, cimeli intrisi di ricordi delle esistenze dei loro precedenti proprietari. Sono infatti la memoria, l’appartenenza e le riflessioni sulla vita e sulla morte, a fare da trama e da ordito a una complessa rete di concetti universali, al cui centro è posto l’essere umano. Ed è proprio la presenza delle persone che rende il lavoro di Shiota, già allieva di Marina Abramović, un’esperienza al contempo intima e collettiva. Entrare in una delle immersive installazioni di questa artista nata a Osaka e residente ora a Berlino, è come varcare la soglia di un’altra dimensione, che ci porta ad immaginarci all’interno di una ragnatela monumentale o di una grotta, sotto una vela gigante o le onde dell’oceano, sperimentando esperienze al contempo fisiche ed emotive. Una narratrice che, condividendo i momenti importanti della sua vita, trasforma in arte i suoi pensieri più intimi, le sue esperienze e le sue paure, investendo il suo corpo e la sua anima nei suoi interventi, diventati oggetto di attenzione internazionale: uno su tutti The Key in the Hand, che ha rappresentato il Giappone alla 56ma Biennale d’Arte di Venezia. L’abbiamo incontrata in procinto di tessere Eye to Eye, la sua nuova installazione site-specific per il Museum Haus Konstruktiv di Zurigo, con la curatela della sua direttrice Sabine Schaschl. Un’opera perfettamente in linea con i linguaggi e i temi che hanno reso l’artista giapponese apprezzata in tutto il mondo.

Le sue suggestive installazioni sono ormai divenute opere iconiche. Ha scelto lei questa forma d’arte o è stata quest’ultima a scegliere lei?
Volevo essere una pittrice, ma mi sentivo limitata dalla tela bidimensionale, così ho iniziato a disegnare nell’aria. Il filo nero è un’estensione della linea della mia matita, col filo rosso invece posso realizzare i miei disegni nella terza dimensione.

Che significato ha questo colore nelle sue opere?

Tessendo col filo rosso, è come se utilizzassi il colore del sangue. Tutto è all’interno del nostro sangue: la nazionalità, la religione, la famiglia, la cultura…In Giappone il rosso significa essere collegati al proprio destino. Quando si viene al mondo, un invisibile filo rosso ci unisce automaticamente a una persona che diventerà il proprio compagno di vita. Questi due individui sono fra loro collegata sin dalla nascita, influenzando reciprocamente la propria esistenza per sempre.

Al termine di una mostra quale sensazione prova sapendo di dover smontare un’instal- lazione che ha richiesto una realizzazione così complessa?

Quando creo un’installazione vi infondo tutte le mie emozioni. E ogni giorno il lavoro è differen- te: se non mi sento molto bene l’intreccio dei fili inevitabilmente si aggroviglia, quando invece sto bene con me stessa il reticolo appare molto più fluido. Non potendo, per motivi pratici, conservare nella sua forma originale il materiale utilizzato, dopo aver smantellato una mostra a colpi di forbici, ottengo una massa informe e inutilizzabile. L’opera iniziale svanisce, ma continuerà a esistere nella memoria e nei ricordi dei visitatori che l’hanno osservata.

La complessa architettura da lei tessuta sembra rappresentare variegate tipologie di connessioni, da quelle umane a quelle biologiche, passando per quelle create da Internet. Cosa intende comunicare con queste strutture così intricate?

All’inizio c’è la volontà di realizzare un semplice disegno nell’aria, ma quando comincio a tessere tutto si trasforma in connessioni. Quella che appare come una ragnatela, può essere associata al sistema di neuroni presente nel cervello umano. Nella nostra società tutti gli individui sono fra loro connessi, non si può vivere in questo mondo senza un qualche tipo di connessione.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha recentemente ufficializzato la fine dell’emergenza pandemica durata più di tre anni; come è stato influenzato il suo lavoro d’artista in quel peculiare periodo?

Anche in questo caso si è trattato di connessioni e di reti. Il virus è riuscito a diffondersi così rapidamente nel mondo poiché siamo tutti inevitabilmente collegati. Durante la pandemia, quando eravamo tutti in isolamento, sentivo l’esigenza di infondere un po’ di speranza alle persone. Avevo così allestito alla KÖNIG Galerie di Berlino l’installazione I hope…, dove avrei invitato i visitatori a scrivere su un foglio di carta le loro speranze, inserendolo poi nel reticolo di fili che avevo creato. Ma poco prima dell’inaugurazione prevista il 12 gennaio 2021, abbiamo dovuto subire un nuovo lockdown, costringendo lo spazio espositivo a richiudere. Così ho invitato diversi artisti, musicisti e autori, a esibirsi all’interno dell’installazione, offrendo alle persone da casa la possibilità di guardare online le varie performance.

 

Perché ha scelto di trasferirsi a Berlino e cosa le manca del suo Giappone?
Vi ho traslocato nel 1997. All’epoca l’intera città era ancora disseminata di lavori in corso, il caos regnava e molti artisti vi si stavano trasferendo. Berlino era pervasa da un’energia completamente differente rispetto a quella del Giappone. Soprattutto dopo la caduta del Muro la città si è trasformata in un epicentro per l’intera comunità artistica. Non ho avuto il minimo dubbio sul fatto di arrivarci e rimanerci. In Giappone torno per realizzare installazioni almeno una volta l’anno e prima della pandemia ancor più frequentemente. Per cui non sento molto la mancanza della mia terra natale.

Quali obiettivi si è prefissata nel preparare l’installazione Eye to Eye allestita al Museum Haus Konstruktiv di Zurigo?
Noi tutti guardiamo un’opera d’arte attraverso gli occhi, vi sono però altri modi per poterla percepire. Non c’è una sola realtà che possiamo osservare, ce ne sono molte altre e tutte differenti. Per questo motivo ho voluto utilizzare gli occhiali per Eye to Eye. Dopotutto ci sono diversi modi di vedere la vita e se si chiede a 100 persone di descrivere un’opera d’arte, sicuramente ognuno avrà un’opinione diversa.

Cosa si augura possano portarsi con sé i visitatori di questa sua nuova mostra?
Il visitatore è libero di guardare il mio lavoro in qualsiasi modo desideri, non vi è una risposta univoca. Mi piace pensare che coloro che visiteranno questa installazione possano poi raccontare la percezione vissuta ad altre persone, a loro volta incuriosite a sperimentare quelle emozioni.

 

TESTI DI FAUSTO COLOMBO / FOTO COURTESY ATELIER CHIHARU SHIOTA