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All’inaugurazione della sua prima mostra, Eman Rus si fa fotografare con una felpa gialla e il passamontagna bianco. È seduto davanti a un tavolo che riproduce il suo spazio di lavoro: una bottiglietta in vetro di Coca-Cola, una bustina di Oki, computer e tablet, una birra a metà, una bottiglietta d’acqua, e una piantina di cactus. Non è solo. Seduto a capotavola, un manichino vestito uguale a lui confonde le idee su chi sia realmente Eman Rus.

Quello che si sa di lui (su Instagram @eman_russ) è che dietro al passamontagna c’è il viso attento e curioso di un 31enne di Olbia, trasferitosi a Firenze per gli studi, ormai finiti. Poco importa, poiché il suo lavoro creativo è talmente forte da far divertire, e riflettere, più di 140 mila follower. Le sue opere trattano temi “social”, affrontano l’informazione e la bulimia di contenuti negli smartphone, dettati da un algoritmo che, secondo Eman Rus, non funziona. Rus critica i meccanismi alla base dei social media e, con questi, gli sviluppi che producono come conseguenza: i tormentoni, il nuovo e smaterializzato lavoro degli influencer, il mercato dei follower e il potere dei meme.

I suoi fotomontaggi raccontano una realtà portata all’estremo.

Nella sua versione del ‘Quarto Stato’ di Giuseppe Pellizza da Volpedo, intitolata ‘Il Quarto Stato 2022’, uno degli uomini è un rider, una delle categorie più sfruttate nel mondo del lavoro. “Sempre pronti a pedalare, nonostante il sole cocente o la pioggia battente, per soddisfare i bisogni e la pigrizia dei consumatori”, dice Eman Rus.

Un’altra opera riproduce la famosa foto scattata in piazza della Repubblica a Firenze nel 1951 dalla fotografa Ruth Orkin, “An American girl in Italy”. L’originale immortala un gruppo di giovani davanti al Caffè Gilli che fischiano al passaggio di una bellissima ragazza. Oggi quella foto sarebbe impossibile: i ragazzi versione 2022 sono troppo impegnati a “scrollare” sugli smartphone per accorgersi dell’intensità che un momento può far vivere.

Vorrei cominciare da una delle dieci opere che hai esposto alla tua prima mostra: la versione 2022 della fotografia del 1951 di Ruth Orkin. Come nasce?

È il lavoro a cui sono più affezionato. Quella foto fa parte della mia infanzia, la conoscevo bene. L’aveva comprata mia mamma e la vedevo incorniciata in casa. L’idea nasce qualche anno fa, durante la pandemia. Come prima cosa ho creato una versione su photoshop mettendo Emily Ratajkowski al posto della ragazza scelta dalla Orkin. Non potevo realizzare quello che ho fatto poi, a causa del lockdown. Passato il periodo di isolamento, mi sono sentito con la modella Marina Aixala Candela. Ho sempre avuto lei in mente per il progetto. A Firenze avevo pochi contatti e quindi ho deciso di scrivere un annuncio su Instagram per riunire diversi giovani alla stessa ora nei pressi del caffè Gilli. La foto è stata riprodotta in modo da estremizzare la nostra dipendenza da telefono. Per stare incollati allo schermo, spesso ci perdiamo la bellezza. A contrasto con quello che era il romanticismo del 1951, che oggi probabilmente chiameremmo catcalling. Credo che tutto quello che riguarda il passato abbia qualcosa di romantico perché legato a sentimenti di nostalgia.

Cosa significa per te “essere artista”?

Ho serie difficoltà ad auto-definirmi un artista. Trovo patetico chi si definisce artista prima ancora di avere un riscontro dal pubblico. La mia figura ricopre tante cose, creo contenuti su internet ma ciò non mi vincola a rimanere esclusivamente sul web. Anche ora, dopo la prima mostra, non mi sento di definirmi artista. Saranno le persone a definirmi tale, gli spettatori del futuro potranno dire se ho veramente lasciato un segno.

L’intervista completa su Posh 103